Sei personaggi in cerca di cuore, cose in cerca di vita. Il viaggio anti-cartesiano di Paolo Fiorucci

Potremmo dire che l’uomo è l’unico animale capace di proiettarsi nel mondo, proietta la sua essenza sulle cose e sull’ambiente, ed è in grado perciò di investire le cose della sua stessa essenza spiritualizzandole. Per chiarirci potremmo parlare di “antropomorfizzazione”, ovvero quella pratica che è nata con l’uomo e che ha caratterizzato la sua evoluzione e il suo millenario cammino, attraverso la quale riusciamo magicamente a provare empatia anche per ciò che non è “umano”. Provare empatia per gli animali, certo, ma addirittura provare empatia per le cose, gli oggetti, l’inanimato che brutalmente contorna e alimenta il nostro orizzonte esperenziale. L’uomo sa soffrire per le cose, sa intuirne paradossalmente anche i dolori, le emozioni, può amarle, può piangere se le vede distruggersi. Non è solo perché quelle cose sono reliquie di un passato che si rimpiange nostalgicamente, ma anche perché siamo in grado di intuirne la vita (evidentemente non biologica e inorganica): perché stupirsi, se i greci per primi giunsero persino a antropomorfizzare la divinità, ovvero quanto di più lontano possa esserci dall’umano? Il cantautore Paolo Fiorucci, attraverso i suoi Sei personaggi in cerca di cuore, si identifica con delle cose; non sono cose comuni, o forse sì, ed è forse proprio questo a amplificare l’efficacia di questo cammino artistico. Sono cose comuni (manichini, cabine per le foto-tessera, soldatini…) ma che ognuno rende più di ciò che sono: diventano interpreti, nostri pari, esprimono i nostri stessi stati d’animo, le nostre emozioni, le nostre angosce e speranze. Fiorucci dà vita a questi oggetti, macchine e giocattoli: essi acquistano una vita, ma non una vita qualunque, non la vita dei fiori e delle piante, ma la vita umana, la nostra, quella di Fiorucci, che in molto può essere quella di ciascuno di noi. Storie di solitudine, di sconforto, di ricerca di un contatto con l’altro (d’altronde è la stessa cabina per le foto che dichiara di non avere funzione senza gente, cosa che potrebbe facilmente essere condivisa da ciascuno di noi). Che vita è la vita di questi esseri inanimati? È evidente si tratti della manifestazione di un paradosso, ma è l’arte che si nutre dei paradossi senza provare alcun imbarazzo o la necessità di risolverli logicamente. Sono esseri che pensano, che soffrono, che ragionano e esprimono i loro sentimenti, senza avere cervello, senza avere organi, senza perciò avere un cuore. Ma cos’è il cuore? Siamo certi di poterlo ridurre a organo? Il cuore è quel muscolo grondante sangue che pulsa, o non è forse qualcosa di più? Qualcosa di simbolico, spirituale, che va oltre la materialità fisica? E allora, a quel punto, lo spaventapasseri e la sagoma di Fiorucci, siamo così sicuri non ce l’abbiano un cuore? Il primo se lo pone come dubbio, domandandosi come amiamo noi che un cuore ce l’abbiamo… ma il suo stesso canto, non evidenzia che anche lui lo possiede un cuore, anche se non di carne? E la paura di essere preso a pallonate dalla sagoma? Si può avere paura quando non si possiede un sistema nervoso, per cui non si può a ragione nemmeno provare dolore? Penso forse sono è una evidente parafrasi di Cartesio e mai titolo fu più azzeccato: se, come affermava il filosofo che inaugurò la modernità, in tutto l’universo dello scibile, l’unico principio che non può venire falsificato e che si autodimostra è il mio stesso pensare (che mi garantisce di essere soggetto al di là di qualsiasi dubbio), perché non ribaltiamo la tesi di Cartesio? Posso porre io il dubbio che le cose vivano, ovvero pensino, ma soprattutto “sentano”, e perciò “soffrano”, “godano” e “amino”? È il sentimento prima della tecnica, dell’elaborazione logica, per questo del sommo grado della produzione tecnologica artificiale: il robot, l’automa, il nuovo golem, che nell’intimo della sua ipseità senza comunicazioni sull’esterno decide di parlare attraverso Fiorucci, attraverso la canzone, perciò l’arte che coglie, in un ammasso di bulloni e ferro, un’anima, ovvero il cuore senza carne. L’autore chiude il suo mirabile percorso in maniera esemplare: uno swing intitolato Il nostro caro frankie. Stavolta Fiorucci non si immedesima più con la “cosa” che ambisce a essere uomo, ma la soggettiva lo conduce a identificarsi con uno scienziato pazzo. È il passo decisivo, la cesura, perché siamo tornati all’uomo, che finalmente ha deciso di offrire la vita all’alterità bruta della materia, che sappiamo però, grazie a Fiorucci, essere intrinsecamente viva anch’essa. E se “la cosa straordinaria è che funziona”, dovremmo pensare al fatto che questa frase non è tanto riferita all’automa, ma allo scienziato stesso, ovvero all’uomo. E lo scienziato stesso forse è l’artista, perciò Fiorucci, che riesce a donare e a trasmettere il soffio vitale alle cose grazie alla sua arte. Si conclude perciò con la manifestazione decisiva di questo cartesianesimo rovesciato: lo scienziato tocca la sua creatura, la vede che ragiona, la tocca e la sua bocca si abbandona… è chiaro che non possiamo “vedere ragionare qualcuno”, ma allo stesso tempo ci è concesso dubitare che la cosa non viva. Un percorso che dalle cose ritorna all’uomo/artista, che si scopre uomo dopo essersi specchiato nella vita di ciò che non vive.

Alessandro Alfieri

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